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Julian Assange case: justice or a threat to freedom of speech?

Julian Assange seems to be a never-ending story and it is having a great impact on the public opinion concerning the importance of  freedom of speech.

Sara D’Aquanno, 15th April 2019, Brussels

The latest episode of the Julian Assange saga

WikiLeaks founder Julian Assange was arrested by the British Metropolitan Police in London, on the 11th of April 2019 and then was taken to court for skipping bail on the 16th of December 2010. He had been in the Ecuadorian embassy in London since 19th of June 2012, after seeking asylum there to avoid extradition to Sweden on a rape allegation. Ecuador’s decision to allow the police to arrest the journalist inside its embassy followed a vivid and acrimonious period in which relations between the current Ecuadorian president Lenin Moreno and the WikiLeaks founder have increasingly become hostile. The arrest is a result of many episode sequences: it is a story that has started in 2010 and that is still going on today. The arrest of the journalist has aroused several reactions. On one side, those in favour of it such as the Prime Minister Theresa May and the foreign Secretary Jeremy Hunt, on the other side those against the arrest such as the Press Freedom Organisation Reporters Without Borders, the Australia’s Foreign Minister Marise Payne, and the actress Pamela Anderson who has visited the embassy to support Assange. Those different kinds of reactions throw light on freedom of speech and it begs the question where the threshold is, beyond which a journalist lose his right to speak out and do his work.

The beginning: the partnership with Chelsea Manning

The story began a long time ago. Assange created WikiLeaks in 2006 with the aim of spreading confidential information, characterising his site and himself as whistle-blowers. In particular, the organisation became famous four years later with the publication of documents related to the behaviour of US soldiers in Iraq, Afghanistan and the living conditions of Guantanamo Bay prisoners. At that time, Assange was working with Chelsea Manning, a former US intelligence analyst. She disclosed more than 700,000 confidential documents, video and diplomatic cables to WikiLeaks. In particular, she downloaded four databases from US departments and agencies between January and May 2010. Those documents were provided to the anti-secrecy website. According to the US Justice Department, this is one the largest breaches of classified information in the history of the United States. Manning has since faced legal consequences: she was arrested in 2010 and she tried to defend herself saying that she only did this in order to promote a public debate on foreign policy. Nevertheless, Manning’s actions have jeopardized the safety of a large number of people. She was accused of espionage and found guilty by a court martial in 2013. Then, President Barack Obama commuted the final 28 years of Manning’s 35-year sentence in December 2017, dating from her arrest in 2010, in his last days in office. Regarding Assange, he has been accused by the state of Virginia of conspiring with Manning to access classified documents on Department of Defense computers. The journalist faces up to five years in jail, in the USA.

Sexual assault allegation

In 2010, two Swedish women accused Assange of rape. In particular, they claim that he had forced them to have unprotected sex. These allegations stem from a visit that Assange made to Stockholm a few months after WikiLeaks gained international notoriety by publishing material leaked by Chelsea Manning. Assange denied these allegations, but a court in England, where he was living at the time, ruled that he should be extradited to Sweden to face investigation. In consequence, he sought political asylum in London’s Ecuadorian embassy. Now that he has been arrested, Swedish prosecutors are considering reopening the investigation. If so, then both Sweden and the USA seek the extradition and this means that the U.K. will have to make the final decision.

Freedom of speech in jeopardy

Assange’s lawyer Jennifer Robinson said they will oppose the extradition request. She stated that it is a “dangerous precedent” where any journalist could face US charges for “publishing truthful information about the United States”. In fact, Assange has portrayed himself as a champion of a free press. He has always stated that WikiLeaks is a journalistic project protected by freedom of the press laws. In fact, in 2007 a U.K. tribunal recognized WikiLeaks as a “media organization”. Nevertheless, he could be prosecuted in the USA for publishing classified information he obtained from Manning in violation of the Espionage Act. It is not rare that a journalist publishes classified information; therefore, those prosecutions against Assange could discourage other journalists to reveal important information with the consequence of limiting freedom of speech. Assange will probably argue that the conspiracy charge was a pretext and the US government is prosecuting him for the publication of classified documents. However, the case shows how the line between justice and freedom of speech is not so clear.

To be continued…

 

L’imprevedibilità dell’inevitabile. Una settimana fa l’ennesimo atto di violenza ha colpito l’Europa: il punto sull’attentato di Parigi.

L’arma migliore dell’Isis? L’imprevedibilità. Sembra essere questa l’arma letale capace di mietere vittime nel territorio europeo. Un morto e cinque feriti: questo il bilancio di quanto accaduto lo scorso 12 maggio durante un apparente sabato sera qualunque nel quartiere dell’Opera Garnier, a rue Montigny, zona frequentatissima di Parigi.

Sembra un film già visto, una storia destinata a ripetersi. Un ragazzo armato di coltello (da cucina) aggredisce i passanti al grido di “Allah Akbar”. Le modalità dell’assalto ricordano quelle di altri attacchi come quello dell’ottobre scorso alla stazione Saint-Charles di Marsiglia, con l’uccisione di due ragazze e quello nella zona del Louvre nel febbraio 2017. È il secondo attentato islamista dell’era Macron, dopo quelli di Trèbes e Carcassonne di due mesi fa. In totale dal 2015 il numero delle vittime di attentati sul suolo francese è salito a quota 245.

L’attentatore si chiamava Khamzat Azimov: nato nel 1997 in Cecenia, aveva 21 anni e possedeva la doppia cittadinanza russa e francese, dopo essere stato naturalizzato nel 2010. Azimov arrivato in Francia nel 2004, è cresciuto a Strasburgo, dove ha conseguito il Diploma di Maturità per poi trasferirsi a Parigi con i suoi genitori dove studiava per diventare infermiere. Un ragazzo apparentemente non pericoloso eppure nel 2016 aveva richiamato l’attenzione dei servizi segreti francesi, guadagnandosi l’iscrizione nel cosiddetto dossier S, ossia, il database contenente tutti coloro che possono rappresentare una minaccia per il paese. Il dossier non raccoglie solo potenziali terroristi islamici, secondo gli ultimi dati rilasciati dal governo francese lo scorso novembre, su un totale di 25.000 schedati con la lettera S solo 9.700 sono potenziali terroristi islamici. In questo dossier si trovano anche attivisti di estrema sinistra, estrema destra o attivisti del black bloc, il dossier è infatti a sua volta suddiviso in diverse sottocategorie rispetto al tipo di pericolo rappresentato. Secondo gli inquirenti Azimov potrebbe aver avuto un complice, anche lui inserito nel dossier S: Abdoul Hakim A., il quale è stato arrestato domenica a Strasburgo, ed è attualmente in stato di fermo, insieme ad altri sospettati, due ragazze legate all’attentatore.

Dopo aver rivendicato l’attentato, l’agenzia di stampa Amaq ha pubblicato un video in cui l’autore dell’attacco giura fedeltà all’Isis e al suo leader Abu Bakr al-Baghdadi.  Nel filmato, di oltre 2 minuti, l’uomo a volto coperto afferma “Siete voi che avete cominciato a bombardare lo Stato Islamico e a uccidere i musulmani”. Ancora una volta ragazzi cresciuti a cavallo tra due culture si ritrovano a incanalare l’odio derivante da anni di guerre che hanno trasformato il Medio Oriente in una polveriera. Il profilo dell’attentatore così come la dinamica dell’incidente sembrano un copione già scritto eppure ciò non è bastato a prevenire simili incidenti. È proprio tale imprevedibilità a generare terror(ismo)e.

Le polemiche si sono avvicendate in questi giorni proprio su questo punto: si poteva prevedere? Molti hanno criticato l’efficacia del dossier S, primi fra tutti Marine Le Pen che con tweet ha messo in evidenzia come ancora una volta un sospettato schedato con la lettera S fosse a piede libero nel paese. Le forze dell’ordine dal canto loro si sono difesi dalle critiche sostenendo che non sussistevano prove sufficienti a giustificare lo stato di detenzione. L’inefficacia del dossier S si allaccia inevitabilmente alla tutela dei diritti umani. Porre in stato di detenzione tutti i possibili sospettati potrebbe tramutarsi in un’ inutile caccia alla streghe. In particolare, il diritto francese non permette di arrestare le persone solo perchè schedate con la lettera S. L’art. 66 della Costituzione francese afferma che nessuno può essere arbitrariamente detenuto. Solo una decisione giudiziaria può consentire la detenzione di un individuo in carcere o in un centro di detenzione e l’iscrizione nel dossier S non è opera di un giudice ma dei servizi di intelligence. La tutela della sicurezza non può avvenire a discapito dei diritti umani, un trade – off delicato ma che va mantenuto se si vuole tutelare la democrazia. Se la prevenzione di tali atti sembra ancora una sfida ardua passi in avanti si vedono in termini di reazione e capacità di risposta. Solo nove minuti sono passati tra l’allarme e l’ arrivo degli agenti che hanno ucciso l’assalitore riuscendo a limitare i danni. Lo stesso premier Edouard Philippe si è complimentato per la rapidità dell’intervento delle forze dell’ordine. Anche il presidente Macron ha reso omaggio ai poliziotti intervenuti sul luogo dell’attentato. Giovedì sera scorso i tre poliziotti protagonisti della vicenda sono infatti stati ricevuti dal Presidente della Repubblica il quale ha mostrato loro il riconoscimento per il lavoro fatto. Non solo il tempestivo intervento ma anche i continui lavori di indagine che da giorni stanno compiendo le forze dell’ordine sono il segno evidente di come si stia rafforzando la capacità di risposta rispetto a simili atti (imprevedibili). Non resta che sperare che reazione faccia rima con prevenzione.

Un’altra scossa politica sul fronte europeo: a far traballare l’Unione è la Romania.

Torna a soffiare minaccioso il vento dell’est: dopo Ungheria e Polonia è la volta della Romania. La riforma concernente il sistema giudiziario rumeno desta preoccupazione.

Gli ultimi giorni di gennaio sono stati particolarmente turbolenti per la Romania protagonista di un intenso dibattito sul fronte europeo.  Sia Romania che Bulgaria sono sotto osservazione della Commissione Europea mediante il cosiddetto Meccanismo di Cooperazione e Verifica il cui obiettivo è quello di valutare i progressi rispetto alla riforma giudiziaria e lotta alla corruzione in Romania e rispetto alla criminalità organizzata in Bulgaria. Tuttavia i presupposti non sono dei migliori: la Romania ha vissuto nell’ultimo periodo una situazione politica poco serena nonché figura ancora tra i paesi più corrotti di Europa.

Dopo tre crisi di governo in un anno, ora il nuovo primo ministro della Romania è Victoria Dancila, prima donna del Paese a ricoprire la carica, già membro del Parlamento europeo. Potrebbe rivelarsi un’ottima scelta strategica per distendere i rapporti con Bruxelles visto il suo passato nell’ambiente europeo, eppure i più critici l’accusano di essere troppo vicina al vero leader del Partito socialdemocratico. L’attuale primo ministro secondo queste voci non sarebbe altro che un facile rimpiazzo di Liviu Dragnea di cui ne farebbe le veci. Il leader del Partito socialdemocratico infatti è impossibilitato a ricoprire la carica di primo ministro in quanto sotto inchiesta per abuso di ufficio e falsificazione del voto ed ha sulle spalle una sentenza di due anni di prigione sospesa. Con la riforma giudiziaria in questione tutte queste accuse cadrebbero.

Il nuovo primo ministro il 29 gennaio scorso ha prestato giuramento davanti al Capo dello Stato ed ha ottenuto la fiducia del Parlamento ma nel suo discorso di insediamento non ha menzionato affatto la questione bollente della riforma giudiziaria. La faccenda però è seria tanto da essere portata all’attenzione della Corte Costituzionale rumena. Il 30 gennaio scorso i giudici costituzionali si sono pronunciati in merito, asserendo che la riforma presenta elementi di incostituzionalità, in particolare per quanto riguarda lo statuto dei giudici e dei procuratori, ed ha invitato i fautori della riforma a definire meglio le nozioni di “errore giudiziario, malafede e grave negligenza”.  La Corte si riunirà nuovamente il prossimo 13 febbraio quando si pronuncerà sulla legge relativa all’organizzazione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. Il 24 gennaio scorso Jean-Claude Juncker e Frans Timmermans avevano fatto un aperto richiamo alla Romania sulla questione e quanto affermato dalla Corte Costituzionale rumena sembra confermare le preoccupazioni di Bruxelles.

Il 31 gennaio per concludere questo mese politicamente intenso, il Capo di Stato rumeno Klaus Iohannis si è recato a Bruxelles per incontrare il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker. I due hanno parlato del semestre europeo a presidenza rumena del 2019 nonché del Summit Ue che si terrà a maggio del prossimo anno proprio in Romania. Ma soprattutto hanno affrontato la spinosa questione della riforma giudiziaria. Il presidente rumeno si era già mostrato poco favorevole a queste nuove leggi (non le ha infatti promulgate ) al contrario degli esponenti di governo, i quali, ai richiami di Juncker e Timmermans hanno risposto difendendo la riforma e puntando il dito sulla Rappresentanza della Commissione Europea in Romania accusandola di riportare false informazioni a Bruxelles. Il Capo di Stato rumeno quindi ha rassicurato Junker promettendo che tutto sarà risolto all’insegna dei principi democratici ed evidenziando che la Romania è un paese pro-Europa. Probabilmente è vero, viste le grandi proteste del popolo rumeno: decine di migliaia di persone hanno riempito le piazze per far sentire la propria voce contro la riforma. Tuttavia non basteranno delle dichiarazioni di intenti a convincere la Commissione Europea. La Romania dovrà fare di più se vorrà  liberarsi del Meccanismo di Cooperazione e Verifica (l cui conclusione è prevista per il 2019 ma potrebbe prolungarsi)  e fare il suo ingresso nell’area Schengen.

Insomma, l’Ue barcolla a causa di un’altra scossa politica proveniente dall’est. Barcolla ma non molla? Staremo a vedere.

Crisi sul fronte europeo. Bruxelles richiama Varsavia: l’Ue invoca per la prima volta l’art. 7

L’Europa non ci sta e si fa sentire. Tensione tra Bruxelles e Varsavia dopo l’ennesima legge che va a ritoccare il sistema giudiziario polacco

 

Sara D’Aquanno, 22/12/17

E già, sono ormai due anni che in Polonia va avanti un percorso di riforme  del sistema giudiziario tradotto in ben 13 leggi le quali fin da subito hanno destato preoccupazione a Bruxelles. Il 20 dicembre scorso la Commissione è giunta per la prima volta ad avviare la procedura prevista all’art. 7  in quanto – secondo l’Ue-  in Polonia vi è un chiaro rischio di violazione dello Stato Diritto.

Accusa pesante sostenuta da una mossa azzardata, tanto è vero che mai prima si era giunti a tanto. Eppure i campanelli di allarme la Commissione li aveva suonati a più riprese nell’arco di questi due anni – sono state adottate tre Raccomandazioni, la prima è quella del 27 luglio 2016, poi c’è stata quella del 21 dicembre 2016 e, infine, l’ultima è quella del 27 luglio di quest’anno. Inoltre, tra Bruxelles e Varsavia sono state scambiate più di 25 lettere sulla questione. Il governo polacco ha fatto orecchie da mercanti. Ora però non è più il tempo delle chiacchiere. Con questa azione l’Ue dimostra che fa sul serio e richiama all’ordine il riluttante stato membro.

Polonia. Il partito nazionalista Legge e Giustizia (Pis) è al governo dall’ottobre del 2015 e tra le promesse fatte in campagna elettorale c’erano i sussidi per le famiglie e una politica più dura contro l’immigrazione, ma soprattutto proprio la riforma del sistema giudiziario  messa sotto accusa dall’Ue.

Nonostante il recente cambio di guardia al vertice dell’esecutivo con la nomina di Mateusz Morawiecki al posto di Beata Szydlo non sembra esservi stato un nuovo approccio verso l’Unione europea. Il nuovo primo ministro continua infatti a difendere il piano delle riforme. Il Governo polacco sostiene di dover mettere in atto quanto detto durante il periodo elettorale e cioè riformare il corrotto sistema giudiziario. Per la Polonia quindi non c’è nessuna violazione.

Ue. Secondo la Commissione, invece, la violazione c’è e in particolare, sono due i problemi riscontrati: un ministro della giustizia con troppo potere ( il sistema giudiziario diviene eccessivamente controllato dall’esecutivo), nonché una discriminazione di genere derivante dall’introduzione di una differente età pensionabile per i magistrati donna (60 anni) e uomo (65 anni) – in violazione dell’articolo 157 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea e della direttiva 2006/54 sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. Nella giornata del 20 dicembre, si è deciso così di azionare la cd opzione atomica: l’ art. 7 così come rivisto dal Trattato di Lisbona. Se il governo polacco non eseguirà le misure proposte dall’Ue – essenzialmente modificare le leggi approvate concernenti il sistema giudiziario – entro i prossimi tre mesi si passerà alla fase successiva. La situazione verrà valutata dal Consiglio dell’Unione Europea  e servirà il voto di 22 dei 28 stati membri affinché si possa procedere con un avvertimento formale. La fase successiva consisterebbe nelle sanzioni quali sospensione del diritto di voto nelle Istituzioni europee e sospensione dei finanziamenti europei. In questo caso servirebbe un voto successivo favorevole di tutti i paesi membri; scenario però poco probabile visto il veto assicurato da parte dell’Ungheria.

I vari esponenti delle Istituzioni europee hanno dichiarato che non vi è alcun intento punitivo e che continuano a cercare un dialogo costruttivo con lo stato polacco. Ad appoggiare la decisione della Commissione anche organizzazioni internazionali come Amnesty International che da tempo mostrano preoccupazione per quel che sta accadendo in Polonia.

Visti i presupposti si tratta di un’azione già annunciata da tempo senza la quale l’Ue avrebbe, di fatto, perso credibilità. Eppure è un’azione che fa discutere: fa storcere il naso a chi pensa che l’Unione Europea si stia traducendo in una mera progressiva cessione di sovranità da parte degli stati a beneficio di una Europa bacchettona che non sa stare al posto suo. La Commissione avrebbe volentieri evitato tutto ciò soprattutto in questo momento storico dove non mancano i problemi tra la questione dell’immigrazione, il pericolo del terrorismo, Brexit, questione catalana, e una Merkel indebolita; non c’è da star tranquilli. Ma i Trattati parlano chiaro e la Polonia non ha lasciato altra scelta che far scattare l’opzione atomica dell’art. 7 in virtù del rispetto dei valori fondamentali dell’Unione Europea.

L’ Ue si trova a fare i conti con un’altra gatta da pelare e se la conclusione dell’anno porta a fare riflessioni, l’Europa non può non riflettere su quanto appaia sempre più disunita e su come ciò favorisca lo sviluppo di nazionalismi  ed euroscetticismi che non fanno altro che gettare benzina sul fuoco.